Ideatore: Raphael Bob-Waksberg
Tutti abbiamo un film o una serie TV che ci sono entrati nel cuore più di qualunque altro, così come tutti abbiamo un personaggio nel quale riusciamo ad immedesimarci totalmente, tanto da poterlo considerare il nostro alter ego all’interno del mondo cinematografico o televisivo.
Ma cosa accade quando il suddetto personaggio diventa anche il protagonista del suddetto film o della suddetta serie televisiva?
Beh, la risposta io me la sono data nel momento in cui mi sono imbattuto, per altro quasi casualmente, in Bojack Horseman, che sin da subito ha catturato la mia attenzione in maniera così “potente” da costringermi a terminare tutte le stagioni (6 per l’esattezza, composte da 12 episodi cadauna, tranne l’ultima che ne vede 16) in pochissimi giorni. E questo accadeva la prima volta, perché la serie ti dà quella dipendenza che solo con Breaking Bad avevo potuto sperimentare, mettendo a rischio ciclo del sonno, lucidità sul posto di lavoro e relazioni sociali per almeno una settimana. Ovviamente poi, per godere al meglio di tutto ciò che andremo ad incontrare, ci sono volute altre visioni, con maggiore calma e dedizione, aumentando di conseguenza ancora di più il legame con il prodotto ideato da Raphael Bob-Waksberg (sempre sia lodato), disegnato da Lisa Hanawalt (sempre sia lodata) e pubblicato per la prima volta in USA nel 2014 (con arrivo qui da noi l’anno seguente).
Brevemente la trama. Bojack Horseman, un tempo star indiscussa della sitcom Horsin’ Around, si ritrova adesso a condurre una vita insoddisfacente, vivendo di rendita grazie al successo avuto un tempo, ma rischiando di precipitare sempre più vicino al dimenticatoio. Tra riflessioni amare, eccessi, relazioni burrascose, disavventure varie e tentativi di riprendere in mano la propria vita, riviviamo questo difficile periodo della sua esistenza (e vi consiglio di riviverlo anche voi, se già non lo avete fatto).
Ma che cosa rende quindi questa serie così speciale?
Beh, sarebbero molte le risposte a questa domanda, ma voglio sintetizzare al massimo il concetto, soffermandomi sui 2 grandi cavalli vincenti (perdonate la battutaccia in puro stile Bojack), che elevano il prodotto ben oltre la media: i personaggi e la sapiente interazione che si viene a creare tra quello humour, spesso anche molto becero come piace a me, e la profondità dei temi trattati.
“Responsabile della mia felicità? Non so esserlo nemmeno della mia colazione!”
Partiamo dai personaggi, anzi dal personaggio. Perché la serie è costruita interamente su Bojack, di fatto è il suo one man show o, meglio, il suo one horse show, e su questo non ci sono discussioni. Finirete per amare questo bizzarro cavallo dalle sembianze umanoidi, che si carica tutta la storia sulle spalle, non sentendone per la maggior parte dei casi il peso. Bojack rappresenta perfettamente il concetto dell’antieroe, in alcuni momenti riesce a rendersi veramente spregevole, ma nonostante questo lo spettatore fa il tifo per lui, perché riesce comunque a trasmettere un’empatia che a volte ti farebbe venire voglia di entrare dentro allo schermo e dargli una pacca sulla spalla per dirgli “Coraggio Fratello”.
“Pezzo di merda. Stupido pezzo di merda. Sei solo uno stupido pezzo di merda. Ma so di essere un pezzo di merda, quindi sono meglio dei pezzi di merda che non sanno di essere pezzi di merda. O forse no?”
Bojack è totalmente consapevole di essere lontano anni luce dalla perfezione e lotta per tutte e sei le stagioni contro questo lato del suo carattere, uscendone a volte vincitore ed altre volte brutalmente sconfitto. Spesso è costretto a crearsi una sorta di maschera, per nascondere le sue insicurezze dietro a quell’aura da duro che tenta di cucirsi addosso e, a partire più o meno dall’inizio della seconda stagione, proverà a ridare un senso alla sua esistenza, attraverso la partecipazione (che presto diventerà quasi un’ossessione) al film di Secretariat.
“Io voglio sentirmi bene con me stesso, come fai tu e… non so come si fa. E non so se ci riesco”.
Un aspetto che senza dubbio contribuisce ad aumentare la sua inquietudine è quello legato alla famiglia, in qualunque modo si cerchi di affrontarla. Ricorrenti sono infatti i riferimenti ai genitori di Bojack, in particolare al complicato rapporto con la madre, al quale spesso si ricorre mediante flashback che ci riportano indietro alla giovinezza del nostro protagonista. E poi, così dal nulla, quasi come a dare una possibilità a Bojack di diventare una persona migliore (con alterne fortune), ecco comparire la presunta figlia Hollyhock Mannheim-Mannheim-Guerrero-Robinson-Zilberschlag-Hsung-Fonzarelli-McQuack. L’aggettivo “presunta” e la quantità di cognomi che accompagnano la giovane la dicono lunga sulla sicurezza della paternità, ma un certo grado di parentela (che ora non ricordo) resta in ogni caso con Bojack, così come restano i suoi goffi tentativi di impersonare quel fratello maggiore che invece molto spesso sembra essere proprio Hollyhock.
“Ora, se vuoi scusarmi, vado a farmi una doccia così non capisco se sto piangendo o meno”.
Come nel caso della signorina Mannheim-Guerrero ecc ecc, tutti i personaggi secondari sono stati intelligentemente studiati per incastrarsi alla perfezione con Bojack, risultando delle spalle davvero perfette per l’occasione. E non a caso i vari Princess Carolyne, Todd, Diane e Mr. Peanutbutter (giusto per citare rapidamente i principali) li troviamo già dal primo episodio della prima stagione, dove già si comincia a capire quale sarà il loro ruolo e in che modo andranno ad interagire col protagonista indiscusso. Il modo in cui riescano a toccare Bojack sui nervi più scoperti è assolutamente invidiabile, e dà vita ad alcuni siparietti a dir poco indimenticabili. Tra tutti, ne ricordo con maggior piacere un paio con Diane, sempre in bilico tra risata e lacrimuccia e quelli in cui Princess Carolyne non si spreca nel riempire di complimenti il suo assistito ed ex fidanzato.
“Ricordi una cacca che ha mangiato una seconda cacca e defecato una terza cacca”.
L’aver accennato agli episodi con Diane come “in bilico tra risata e lacrimuccia”, mi offre poi l’occasione per soffermarmi probabilmente sull’aspetto più importante di tutta la serie. È incredibile, infatti, come anche all’interno dello stesso episodio si possa passare svariate volte da momenti di humour (spesso anche piuttosto becero e destinato a quei pochi “eletti” che apprezzerebbero il definire “una grande disdetta” l’interruzione di corrente elettrica per mancato saldo della bolletta, semi cit. episodio 1) a fasi di profonda riflessione in cui veramente fatichi a trattenere la commozione. Le battute non risparmiano davvero nessuno (malati terminali, bambini, gay ecc, ecc), fregandosene bellamente di tutto quel politically correct che onestamente ci ha frantumato più di ¾ di genitali, mentre le sequenze emotivamente più intense vanno ad abbracciare una serie di tematiche anche piuttosto complesse e che tanto di moda vanno ancora oggi.
E a proposito di commozione, sfido chiunque a non aver attinto a qualche fazzolettino durante gli ultimi episodi, dal momento che:
"Il lieto fine è una cosa inventata da Steven Spielberg per vendere biglietti. È come il vero amore, le Olimpiadi di Monaco. Sono cose che non esistono nel mondo reale. Dobbiamo continuare a vivere guardando al futuro".
La trovate ancora su Netflix, per chi lo ha e non vuole avventurarsi lungo altri tortuosi percorsi, per cui non perdete troppo tempo e correte a recuperarla se ancora non lo avete fatto. Un giorno mi ringrazierete.
Anche perché, in aggiunta a quanto detto, va riconosciuto come il disegno dei personaggi sia assolutamente fantasioso e ben riuscito, e gli episodi durano poco più di una ventina di minuti e quindi possono essere riprodotti per riempire molti buchi che altrimenti sarebbero impiegati in modi decisamente peggiori.
Serie TV capolavoro, voto 1000.
Buona visione,
Nessun commento:
Posta un commento