Regia: Stefano Sollima
Roma brucia e sembra che tutto stia per finire. Dai tetti di consumate palazzine romane si scorgono solo incendi, nubi di fumo e blackout continui.
Ambientato in una versione della capitale distopica, decadente, fumettistica, l’ultimo film di Stefano Sollima, Adagio, chiude la trilogia sulla “Roma criminale” (dopo ACAB del 2012 e Suburra del 2015) e parla del declino di vecchi criminosi giochi di potere, istituzionali e non, e dell’evolversi di nuove dinamiche di corruzione, ricatto, violenza.
Manuel – capelli rasati, orecchini e cuffie hi-tech al collo - è un sedicenne aspirante rapper incaricato da tre poliziotti corrotti di partecipare ad un festino organizzato da un ignoto personaggio politico per riprendere con lo smartphone ciò che vede, con lo scopo di testimoniare episodi di prostituzione minorile e abuso di droghe. Quando si rende conto della presenza di ulteriori videocamere nascoste, preoccupato per essere stato ripreso mentre sniffava cocaina, decide di boicottare i suoi mandanti e di scappare, chiedendo aiuto a due vecchie conoscenze dell’anziano padre Daytona (Servillo): sandali e calzini bianchi, andatura lenta e confusa, sguardo svuotato come quello di chi soffre demenza senile, Daytona è un residuo della Banda della Magliana, che vive ormai ai margini della società.
Ne facevano parte anche i suoi ex-soci (a cui si rivolgerà Manuel, appunto) ovvero Polniuman (Mastrandrea), cieco e inerme, accasciato in una buia e becera casa ad ascoltare ancora Pazza idea di Patty Pravo, e Romeo detto Il Cammello (Favino), 12 anni di carcere e manicomio criminale alle spalle, massiccio e ricurvo, completamente glabro, ormai fa fatica anche a parlare.
La fuga continua del ragazzino e il suo inseguimento da parte dello spietato carabiniere corrotto, interpretato perfettamente da Adriano Giannini, insieme ai tentativi dei tre ex della Magliana di proteggere il ragazzino, danno così il via ad un avvincente action movie che ha poco da invidiare ai competitor d’oltreoceano. Le loro azioni, eroiche e al tempo stesso disperate, che seguono un ritmo perfetto e incalzante, rientrano in quello schema narrativo tipico del genere gangster, ovvero quello dell’ex-criminale ritiratosi, costretto a rientrare ”nel giro” per cercare un riscatto che con una certa probabilità lo porterà alla morte.
Fondamentali sono la fotografia di Paolo Carnera, che riesce a dare la prospettiva di una Roma underground familiare ma nuova, dove tutti gli elementi – le strade, gli incendi, i blackout, la stazione – sono funzionali alla drammaturgia e permettono di percepire il caldo afoso e la sporcizia di quelle periferie in piena estate che normalmente non si vedono sul grande schermo. Le interpretazioni, soprattutto quelle di Servillo e Favino, sono estremamente credibili in tutta la loro crudezza e nell’evoluzione dei rispettivi character, insieme a quella di Giannini (il poliziotto corrotto) il cui personaggio funge da filo conduttore di tutta la storia nonché da movente comune dei ritorni in scena dei tre uomini.
Adagio è a tutti gli effetti un neo-noir urbano colorato dal dramma esistenziale dei suoi personaggi, anti-eroi che si trascinano come cani randagi per le vie urbane per poi rinascere, con uno sguardo luminoso, quando arriverà il loro momento. Sono uomini che poco hanno a che vedere col sistema forza-potere-ricchezza-sessualità che caratterizza tipicamente i personaggi del genere (alla Pablo Escobar maniera). In questo senso Sollima rende dinamico lo sviluppo del soggetto: in un baratro di frustrazione e malinconia, è evidente che l’unico modo per assaporare di nuovo l’adrenalina giovanile e per riesumare la propria virilità è quello di “rientrare nel giro”, rispolverare la pistola o il coltello e sentirsi in qualche modo minacciosi, in mondo in cui Tutto il resto è noia (brano che conclude il film).
Sollima anche questa volta racconta, senza alcuna intenzione moralistica, di uomini per cui non c’è dio e non c’è redenzione. Come delle falene impazzite girano intorno alle proprie ossessioni, ostinandosi a seguire codici d’onore che li porteranno incontro ad un destino inevitabile, come in ogni tragedia che si rispetti. In uno contesto macchiato da malavita, omofobia e corruzione politica, forse non c’è speranza neanche per il nuovo – rappresentato dal giovane Manuel – ormai incastrato e assorbito anche lui da dinamiche viziate, che altro non può fare se non scappare.
Buona visione,
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