Regia: Matteo Garrone
Se l’intento di Garrone era quello di colmare il “vuoto visivo” collettivo che aleggia intorno all’esodo dei migranti africani, si può condivisibilmente affermare che ci riesce, ma in parte. In parte per due motivi: in primo luogo perché la narrazione della storia è volutamente accompagnata da elementi onirici e da risoluzioni della trama eroiche, grandiose e poco realistiche (in molti hanno parlato di “realismo magico” e di Io Capitano come di un lungometraggio troppo fiaba e poco reportage), rischiando di edulcorare un fenomeno gravemente drammatico come quello migratorio.
In secondo luogo, non è ben chiaro se la scelta di contenere il realismo nudo e crudo di questi viaggi tortuosi sia una scelta esclusivamente stilistica o se sia stata motivata dal tentativo di risultare il più a-politico e meno retorico possibile.
In realtà, una presa di posizione c’è: Garrone sceglie di raccontare la storia di due ragazzi senegalesi, Seydou e Moussa, che sognano di raggiungere l’Europa per diventare due popstar, a costo di lasciare un Senegal che non sembra non esser messo poi così male. Dakar viene infatti rappresentata come una realtà cittadina fatta sì di polvere, cantieri in avanzamento, mestieri rudimentali e strascichi di neocolonialismo (saltano all’occhio i loghi dei mega brand sulle t-shirt e sulle tute usurate dei ragazzi protagonisti) ma anche di musica, danza, colori, allegria e dolcezza degli affetti familiari.
“Chiediamo alle nostre mamme di perdonarci per quello che stiamo facendo”
Il desiderio di emancipazione e il diritto a reclamare le pari opportunità da parte dei giovani africani è quindi la reale motivazione della partenza, non invece una situazione di disperazione come un regime dittatoriale, una guerra o una carestia.
A questo punto con l’inizio del viaggio prende il via anche un crescendo di drammaticità e di crudeltà che i due protagonisti saranno costretti ad affrontare da lì e per il resto dei loro giorni. È necessario attraversare, rigorosamente in modo illegale, il Mali, il deserto del Sahara per poi raggiungere la Libia e da Tripoli salpare verso l’Italia: una tratta fisicamente stremante e piena di corruzione, estorsione, ricatti, compromessi e soprattutto di morte. I cadaveri ricoperti di sabbia nel deserto sono uno dei primi momenti in cui lo spettatore sperimenta un senso di ingiustizia e di moralità che crescerà da lì in poi con la visualizzazione delle prigioni libiche e con l’orrore del business dei trafficanti di uomini.
L’umanità del sedicenne Seydou è l’elemento che contrasta con la disumanità di chi ci specula sui migranti, e che intenerisce e dà speranza anche allo spettatore più scettico: a costo di risultare poco credibile, la tenacia e l’altruismo del protagonista commuovono ed evidenziano una cultura, quella senegalese, basata sui valori di fratellanza e condivisione. Il crescendo di dramma e di tensione sono quindi smorzati dalla storia umana che non si evolverà necessariamente nel peggiore dei modi, anche se la rappresentazione di quello che succede in Libia è difficile da digerire (il male maggiore sembrano essere i trafficanti libici appunto, e anche qui si percepisce una sottile intenzione del regista, forse).
L’umanità del sedicenne Seydou è l’elemento che contrasta con la disumanità di chi ci specula sui migranti, e che intenerisce e dà speranza anche allo spettatore più scettico: a costo di risultare poco credibile, la tenacia e l’altruismo del protagonista commuovono ed evidenziano una cultura, quella senegalese, basata sui valori di fratellanza e condivisione. Il crescendo di dramma e di tensione sono quindi smorzati dalla storia umana che non si evolverà necessariamente nel peggiore dei modi, anche se la rappresentazione di quello che succede in Libia è difficile da digerire (il male maggiore sembrano essere i trafficanti libici appunto, e anche qui si percepisce una sottile intenzione del regista, forse).
Sicuramente un altro aspetto fondamentale per Seydou e per i suoi compagni è la fede e la devozione verso Dio (Allah), come guida e come protettore. Il tema della religiosità viene appena accennato nel film ma, grazie a testimonianze dirette di uomini che hanno vissuto quest’esperienza, sappiamo che la fede rappresenta la loro vera fonte di energia per resistere e sopravvivere ad uno sforzo fisico e mentale così estremo.
Io capitano è un film sicuramente che doveva essere fatto perché dà voce ad un vissuto umano che ha ancora troppa poca voce nella coscienza collettiva.
Il regista di Gomorra, qui co-sceneggiatore con Massimo Gaudioso, Massimo Ceccherini e Andrea Tagliaferri, si ispira ai racconti di molti immigrati che hanno intrapreso lo stesso percorso, raccontando con grande sapienza narrativa, anche se un po' troppo frettolosamente verso la fine, una storia apparentemente distaccata dal dibattito politico italiano sul tema dell’accoglienza e del post-sbarco. Il tema chiave è infatti il diritto universale di sperare e di sognare una nuova vita, una rivendicazione che isola e ridicolizza la mancanza di empatia assai diffusa fra italiani e europei nei confronti di protagonisti di storie come questa.
Buona visione,
Chiara D'Agostino
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