Regia: Alejandro González Iñárritu
Prima di arrivare a scrivere, produrre e dirigere un film che parla di sé, qualsiasi regista aspetta il momento giusto: la fase appena successiva all’apice della carriera – l’inizio della maturità professionale e artistica.
Sembra che per Bardo – Cronaca Falsa di Alcune Verità, Alejandro Iñárritu abbia seguito lo stesso principio: Il Bardo infatti è il Limbo – nel rito buddista, "bardo" è lo stato intermedio tra la morte e la reincarnazione - ed è la metafora di cui il regista si serve per rappresentare la propria condizione mentale, ovvero quella di uomo che non si sente né da una parte né dall’altra (parafrasando le sue stesse parole “Io sono un uomo senza terra, perché sono messicano per gli americani e americano per i messicani”)
Presentato in concorso alla 79° Mostra del Cinema di Venezia, Bardo è girato interamente in Messico e in lingua spagnola, con il protagonista, interpretato da Daniel Gimenez Cacho, volutamente somigliante al pluripremiato regista di Revenant.
Il lungometraggio, definito da Iñárritu come “auto-fiction”, è incentrato sulla storia di Silverio Gama, documentarista messicano molto noto al pubblico che sta per ricevere un importante premio statunitense di giornalismo. Vive a Los Angeles con la famiglia ormai da 20 anni, e il ritorno nel paese d’origine per presentare uno dei suoi ultimi docu-film, scatena in lui un flusso di coscienza, alternato fra sogno e realtà oggettiva, che alimenta una continua autocritica sulla propria identità, sulla propria storia, sui traumi non superati e sul rapporto con la madre patria.
Il Messico infatti è un Paese difficile e in continuo stato di risentimento e tensione con i confinanti Stati Uniti, per mano dei quali il popolo messicano storicamente ha dovuto subirne la colonizzazione (“Il governo USA permetterà ad Amazon di acquistare lo Stato messicano della Bassa California“ – da questa citazione del film si evince il sentimento politico del regista).
Proprio nei confronti della madre patria Silverio sembra provare un ipocrita senso di colpa, molto probabilmente per il fatto di aver generato le proprie fortune grazie ai brutti e cattivi Stati Uniti, e per non essere mai stato abbastanza vicino alla sua gente (verso la fine del film, durante la scena ambientata nel resort messicano, si intuirà perché tale senso di colpa può essere definito “ipocrita”).
L’intero film segue una narrazione ondivaga e non lineare, caratterizzata da un susseguirsi di inquadrature grandangolari che altro non rappresentano che materializzazioni di paure e traumi irrisolti, primo fra tutti quello del figlio Mateo, scomparso subito dopo la nascita, rappresentato all’inizio del film come un feto che, appena partorito, preme per rientrare nell’utero materno (scena incredibilmente originale e suggestiva).
Da lì in poi, Silverio prosegue nella sua caotica meditazione su diversi dubbi esistenziali, che spaziano dal rapporto con i vecchi amici e ex-colleghi messicani, dal decadimento del giornalismo moderno che sembra essersi ridotto a quante visualizzazioni fa un post pubblicato sui social, (“Come dicevo, la vita è solo una serie di immagini idiote"), arrivando ad affrontare la conflittualità con i figli adolescenti, con cui non riesce a comunicare come vorrebbe, ed infine, dedicando un sentimento di malinconia e tenerezza verso il padre defunto, che durante una scena viene immaginato come un fantasma, e verso l’anziana madre malata di Alzheimer (anche in questo caso è stata ideata una scena di dialogo d’impatto, visivamente potente).
La regia di Iñárritu, supportata da un’eccellente interpretazione di Daniel Gimènez Cacho, è come sempre impeccabile. Bardo può essere definito come un film iconografico: ogni scena del film è come un affresco, maestosa, densa e piena di dettagli simbolici e non casuali (anche da qui si percepisce quanto alto possa essere stato il budget a disposizione della pellicola); la fotografia e la composizione delle immagini sono visivamente perfette; la sceneggiatura è originale e d’impatto. Iñárritu inoltre è un maestro dei piani sequenza: emblematico quello realizzato durante la scena corale di ballo sulle note di Let’s Dance di David Bowie, che ricorda vagamente un tipico party felliniano: la scena finale di 8 e Mezzo, con tutti personaggi più importanti della vita del protagonista che formano un trenino danzante, potrebbe essere stata un’ispirazione concettuale della scena, così la simbologia associata alla danza, concepita come sfogo liberatorio delle proprie emozioni e fragilità.
Dal momento che da un punto di vista tecnico si può criticare ben poco, l’aspetto che forse lascia lo spettatore perplesso è l’ambiguità del personaggio, di cui non viene compresa fino in fondo la reale causa di tormento, e che, peraltro, difficilmente riesce a risultare sincero e autentico; al contrario, si può dedurre che Silverio sia consapevole della propria ipocrisia e del proprio egoismo; sempre citando 8 e Mezzo - perché non sa voler bene - sembra la risposta fatidica che il protagonista cerca e che, infondo, già conosce.
Silverio ha una famiglia perfetta e che lo ama, popolarità, approvazione dal pubblico, ma subisce lo pseudo-dramma tipicamente borghese di chi, nonostante abbia tutto ciò che è più desiderabile secondo il credere comune, si sente perennemente insoddisfatto e incompleto, in balìa dei giudizi altrui. L’insieme di tutti questi fattori lascia trapelare una certa mania di grandezza da parte di Iñárritu, coronata, verso la fine del film, dalla sentenza “Il mio più grande fallimento è stato il successo”.
Al netto di questo, Bardo resta un film interessante, ben girato, ricco di riferimenti storici e cinematografici, che, alla fine, fa riflettere sul concetto di individualismo che pervade la società moderna. In definitiva, è assolutamente da guardare.
Buona visione,
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