Regia: David Cronenberg
In attesa di vedere l’ultimo lavoro del Doktor Cron, il nostro illustre patologo del cinema, senza badare troppo alle critiche: “E’ il solito Cronenberg / È tornato il solito Cronenberg”, noi rimpinguiamo queste pagine per fare un’anamnesi. Ma quando mai il Doktor ha cambiato tematica?
Cioè, il nostro è sempre stato affascinato dalla mutazione del corpo, dai parti mentali e dalle ossessioni allucinate, a volte rimescolandoli fra di loro. L’uomo non ha mai abbandonato la sua poetica, ma l’ha sempre evoluta. Carne, cervello, ossessione, tutto attraverso il suo occhio gelido eppure affascinato. Certo, nei primi film era tutto più fisico, dai parassiti libidinosi di Il Demone Sotto la Pelle, alla bio-pistola di Videodrome, fino alla trasfigurazione mostruosa de La Mosca. Persino l’adattamento de La Zona Morta dello Zio Steve ha un che di ospedaliero.
Però c’è stato un momento della sua carriera dove tutto questo ha raggiunto l’apice, l’innesto, un bypass cinematografico per tutti i lavori successivi: M. Butterfly.
Il problema è: come raccontarvelo senza fare spoiler?
Potrei dire che vi racconterò l’ovvio, ciò che i vostri occhi vedranno da subito, senza avere non dico le fette di prosciutto, ma un intero cinghiale sugli occhi, come il protagonista della storia.
Il film è ispirato ad una storia vera, portata poi a teatro da David Henry Hwang e interpretata da Anthony Hopkins e John Lithgow. Renè Gallimard (il sempre sia lodato Jeremy Irons) è un diplomatico francese a Pechino che si innamora della cantante lirica Song Lilling, interprete della Butterfly di Puccini. La corteggia, la possiede, e ne plasma il suo modello ideale. Per proteggere lei e il loro figlio, le passa delle informazioni riservate, sacrifica moglie e carriera, fino a venire arrestato per spionaggio. Al processo scoprirà che Song Liling non era solo una spia e di essere “un uomo che si è innamorato di una donna creata da un uomo.” Chiaro, no?
M. Butterfly è lo zenith del Doktor. È la storia di una caduta libera nelle proprie ossessioni, - come La Mosca, come Videodrome, come tutti i film passati e futuri del Canadese -, nelle proprie illusioni e fantasie. Song Liling è la geisha da sogno di Gallimard, l’Oriente esotico e misterioso che si sottomette all’Occidente, ma che in realtà non esiste.
“Questi orientali si sottometteranno” assicura Gallimard al suo console, parlando dei possibili interventi nel Vietnam e ceffando clamorosamente, con le guardie rosse alle porte. Song Liling è la sua Butterfly, non è John Lone (L’Ultimo Imperatore di Bertolucci), nemmeno quando nel pullman carcerario che riporta lui e Gallimard in cella, questo si spoglia implorando Renè di guardarlo per quello che è davvero (“Un uoooomo! Sei un uoooomo!” Ci vorrebbe la vignetta di Cinzia di Leo Ortolani, per sdrammatizzare un po’). Ma niente, Gallimard è perso nella sua Butterfly, tanto che in prigione la diventerà lui stesso, nell’ultimo tragico atto della sua personale opera.
Magari ‘sta recensione vi sembra un po’ pesantina o solenne, ma il film è proprio questo: un’opera teatrale al calor bianco, dove Jeremy Irons è immenso, un alter ego perfetto per i sogni di Cronenberg, già superbo nell’uterino Inseparabili (1988). Adesso il testimone delle vision del Doc è Viggo Mortensen, ma Irons ha sempre avuto un che di magnetico. John Lone, da par suo è il secondo nome nel cast, fortemente voluto dal regista, per svelare l’androgino, e passa da Imperatore a Geisha con grande convinzione, -magari ha fatto una full immersion di androginia con David Bowie - anche se nel doppiaggio italiano gli mettono una voce un po’ troppo da Amanda Lear.
Una vera pièce cinematografica, un Cronenberg da riscoprire, magari accanto a film simili e coevi, come La Moglie del Soldato. Ora scusate, vado a rifarmi il trucco.
Buona visione,
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