Regia: Scott Derrickson
Il giorno – molto in là mi auguro: grattatevi tutti da qualche parte - in cui rimarremo senza la prosa di Stephen King, ci ritroveremo con una carrettata di opere “postume” e la consolazione che ci sarà chi raccoglierà più che degnamente il testimone dello Zio Steve, ovvero Joe Hill, secondogenito di papà King, che con la sua prosa, simile ma personale, ci ha già regalato dei lavori di tutto rispetto, sia su carta, che su schermo.
Per chi vuole approfondire la prima, abbiamo anche una recensione apposta qui. Anche perché su Owen King, terzogenito del Re preferisco glissare, ma diciamo che ecco, il talento salta sempre una generazione, difatti anche la sorella primogenita Naomi si è dedicata ad altro.
Chi invece va di fretta e con l’accento di Mike Bongiorno ci chiede: “Si fa un gran parlare oggi di Black Phone. Ma mi dica un po’, com’è questo Black Phone? Lascia o Raddoppia?” rispondiamo subito!
Black Phone è un bel horrorino con venature da thriller, tratto da un racconto breve di Joe Hill contenuto nell’antologia (quasi introvabile in italiano) Ghosts, e che sarò sincero non mi ricordavo, avendolo letto in lingua originale (e anche perché mi erano rimasti in testa altri racconti), ma che ho riscoperto guardando il film. 1 ora e 37 minuti prodotti dalla Blumhouse con un cast azzeccato, e un’ambientazione retrò che mangia Stranger Things proprio come il Demogorgon, in un solo boccone.
Denver, 1978: Finney e Gwen sono fratello e sorella, lui tredicenne, lei poco meno, molto legati fra di loro. Gwen ha anche il dono di vedere in sogno eventi che si sono avverati. I due sono orfani di madre e con padre manesco e ubriacone al seguito, che si aggiunge alla quota problemi di un tredicenne normale. Perché Finney a scuola viene bullizzato, e dulcis in fundo viene rapito da Grabber, il maniaco che sta terrorizzando la città, rapendo ragazzini e uccidendoli. L’uomo lo rinchiude in uno scantinato, dove c’è solo una branda, un gabinetto e un vecchio telefono a muro nero – il Black Phone del titolo – ormai guasto. Ma tra una visita e l’altra dell’aguzzino, il telefono squilla: sono gli spiriti delle vittime, che danno consigli e indicazioni su come sopravvivere al mostro. In pratica il telefono azzurro per defunti. Ce la farà Finney? E Gwen che sogni farà che possano aiutare a ritrovare il fratello?
Il film si prende i suoi venti minuti per immergerci nella storia e nei personaggi, poi quando entra in scena Grabber, la storia parte. Da una parte abbiamo Ethan Hawke, nei panni insoliti ma efficaci del maniaco, che in molte sequenze indossa una maschera smontabile da diavolaccio, che gli permette di lavorare col linguaggio del corpo e sull’assenza, distillandosi in poche scene, aleggiando nell’attesa delle successive apparizioni. Ma dall’altra abbiamo Finney, il vero eroe della vicenda, l’ottimo Mason Thames, che tiene la scena e che promette bene. Il suo Finney è un ragazzo debole che dovrà crescere – e sopravvivere – per superare l’orrore. E la sua sorellina, un personaggio già icastico, tra super potei fatti di sogni premonitori e parafernalia nascosti nella casa delle Barbie per comunicare con Gesù, secondo l’ottica tutta riformata che ne hanno dall’altra sponda Atlantica.
Ci sono parecchi topos di casa King nel film, il passaggio dall’infanzia alla maturità, i poteri dei bambini, il mondo distante degli adulti, tutte cose che Joe Hill e Scott Derrickson cucinano in un prodotto onesto e della giusta durata, senza allungare il brodo, ma regalandoci uno spaccato di realtà americana. Magari non piacerà a tutti, e non sarà l’horror/thriller dell’anno, ma nel catalogo Blumhouse ha tutte le carte in regola.
A proposito, mi sembra che Joe faccia un cameo nel ruolo del professore di scienze, in un altro topos da film USA: la sezione della rana in classe.
Direi che per un’altra generazione siamo coperti: Hey, Jo’, Let’s Go!
Buona visione,
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