Regia: Dario Argento
Dopo aver spiccato il volo con L’Uccello Dalle Piume Di Cristallo, aver reiterato il crimine con Il Gatto A Nove Code, in poco tempo arriva la terza fatica di Argento nella sua età dell’ Oro: Quattro Mosche Di Velluto Grigio.
Il batterista Roberto Tobias è pedinato da un tizio in impermeabile. Una sera decide di affrontarlo e chiedergli spiegazioni, ma lo uccide accidentalmente. L’omicidio viene però fotografato da un altro tizio mascherato che inizia a perseguitarlo. Sua moglie Nina vorrebbe che partissero, ma Roberto non vuole rivolgersi alla polizia, così assieme ad una armata Brancaleone composta dal clochard Diomede detto Dio (Bud Spencer, nientemeno), il professore (Oreste Lionello) e con la collaborazione del detective gay Arrosio cercherà di venire a capo del mistero. Anche perché intorno a lui le persone finiscono ammazzate come mosche (non di velluto) e l’incubo ricorrente di spettatore ad una pubblica decapitazione gli sta addosso…
Il terzo e ultimo thriller della trilogia zoofila del Darione Nostro, - che infatti cambierà il titolo del successivo film da “La Tigre Dai Denti A Sciabola” in Profondo Rosso – è stato per anni un film invisibile. Per questioni di diritti scaduti e beghe legali, dopo l’uscita al cinema non è più circolato da noi, a parte un paio di passaggi televisivi su Rete 4 nel 1991, - che poi è la copia da cui ci siamo abbeverati in tanti quando nei primi anni Zero ha iniziato a circolare sui torrent – finché risolti i casini è finalmente uscito in dvd. Rispetto ai precedenti film rimane il più atipico, perché la storia in realtà è la radiografia del matrimonio dello stesso regista: Dario, infatti, all’epoca era in crisi con la moglie Marisa Casale e questo si riflette sul film: i due protagonisti hanno volutamente le loro fattezze e la trama parla appunto di incomunicabilità di coppia.
Quello che funziona è il collage delle varie città che creano l’ambientazione giusta e la costruzione della tensione prima degli omicidi: su tutti quello della cameriera nel parco, dove la donna si accorge all’improvviso di essere rimasta sola perché la gente se n’è andata e poi quello del detective Arrosio nei cessi del metrò, proprio quando l’uomo aveva azzeccato una soluzione per la prima volta nella sua carriera.
Altro punto a favore è la scelta e l’attenzione che Argento mette nei comprimari, dall’insolito Bud Spencer che non dà sganassoni ma consigli pacati – memorabile la scena alla V mostra d’arte funeraria – a Oreste Lionello che sembra uscito da uno dei film bucolici di Avati. Sulla progressione degli eventi invece resta frantumato in piccoli episodi, quasi che Argento fosse più interessato a ciò che accade all’esterno di Roberto che non proprio a lui; o forse lo sa troppo bene: il loro matrimonio è in crisi, il taglio è netto, come certe coltellate (e lui se ne intende di entrambi).
La colonna sonora di Morricone si muove su dei temi jazz- rock che tampinano lo spettatore, anche se mi chiedo che effetto avrebbero fatto i Deep Purple se avessero accettato l’offerta di musicarlo loro. Forse sarebbero state quattro mosche violette.
A proposito del significato del titolo, non vi resta che scoprirlo da voi, ma come sempre nei film del nostro è un dettaglio che sta nell’occhio di chi guarda; letteralmente.
Buona visione
Il migliore della trilogia, decisamente superiore a "Il gatto a nove code" e forse anche al pur sempre eccellente "L'uccello dalle piume di cristallo", per questa sua aria sia sperimentale che onirica e quasi ultraterrena
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