Regia: Pupi Avati
Estate, caldo, mare. Conosco il posto giusto per un po' di ferie.
Partiamo da Bologna con le luci della sera per vedere la riva assassina del Po, quella fetta di terra arcana che non ci vuole, no, che prima andiamo via meglio è, o una morsa di gelo ci prenderà con sé…Benvenuti a La Casa Dalle Finestre Che Ridono, di Pupi Avati.
E’ la storia di Stefano (Lino Capolicchio) un restauratore chiamato in una remota provincia padana per riportare alla luce l’affresco di un San Sebastiano ritrovato nella pieve locale. L’opera è del defunto Buono Legnani, pittore e matto del villaggio, un tipo così allegro da essere soprannominato “il pittore delle agonie”, per il vezzo di dipingere persone morenti. Una sorta di Ligabue da obitorio. Il pittore aveva due sorelle neanche loro tanto in bolla, che lo aiutavano. Con queste premesse, il nostro eroe riceverà inquietati telefonate che gli sibilano di andarsene e non toccare l’affresco. Invano. E mentre affiorano segreti che dovevano restare sepolti, cominciano gli omicidi e nel paese si stringe la vite dell’omertà e del silenzio…
Eccolo qua, il primo grande successo di Pupi Avati: 45 anni e non sentirli, invecchiato molto bene, un thriller che già dal titolo sinistro e surreale, intriga. Com’è fatta una casa dalle finestre ridenti? Perché mi dà l’idea che non sia un riso felice, ma piuttosto un ghigno macabro e congelato, tipo joker?
Avati mette in scena una provincia romagnola bacata e assolata, fatta di comunità chiuse e ostili. Se Giovannino Guareschi, nelle sue saghe Don Camillo, era il cantore della realtà contadina e del “Mondo piccolo”, le favole del grande fiume, Avati invece mostra tutte le tare (e gli scheletri) della campagna come se la Foce del Po fosse una cloaca maxima, dove la canicola e il silenzio di quei luoghi sono una cappa da cui stare lontani, che qui di foresti non ne vogliamo mica e il falcetto, più che tagliare l’erba, recide gole. Nella campagna nessuno può sentirti urlare, la terra mantiene il segreto e gli uomini lo custodiscono. Sei solo, ormai…
Il successo del film sta nel fatto di essere diverso dal genere argentiano fatto di maniaci in impermeabile che sbudellano nelle metropoli che andavano in quegli anni. Il tono di Avati è quello nonno che racconta la storia “nera” attorno al fuoco, quelle stesse storie che sentiva lui da bambino (è del 1938), magari in dialetto. E’ una storia che procede per sottrazione, senza chissà quali delitti, dove fanno più paura il silenzio e il sole ed è più inquietante il rumore di passi che salgono la scala di un vecchio casolare sghembo. E soprattutto, funziona: l’inquietudine ti si appiccica addosso come il sudore, mentre prosegui la visione. E non è poco per un film del genere.
Il resto è una storia più grande di noi, come succede nei thriller avatiani, qualcosa che più si allarga, più stringe il cappio attorno all’eroe. Il finale poi, lascia perfettamente sbigottiti, volutamente ambiguo come la sua rivelazione.
Il parco attori è servito da alcuni esemplari che Pupi utilizzerà spesso, tanto da diventare “La scuderia Avati” : il già citato Capolicchio, l’esagitato Gianni Cavina, il nano Bob Tonelli. Tutti concorrono a creare un’atmosfera grottesca, che diventa “colore” del film: il nero.
Dopo il successo del film, i produttori cercheranno di convincere Avati a girarne un altro subito: per tutta risposta Pupi, radunò un cast quasi simile e girò una parodia con tanto black humor: Tutti Defunti…Tranne I Morti (1977).
Il nonno racconta le sue favole rosso sangue solo una volta a decennio. Anche questo fa parte del grande quadro…
Buona visione,
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