Regia: Hisayasu Satō
Film malatissimo come solo i giappi sanno fare (e in questo non li batte nessuno) e che indubbiamente resterà impresso nelle menti di coloro che avranno avuto il coraggio di proseguire la visione quando essa sarà stata messa a dura prova, in primis da una lentezza narrativa ai limiti dell’esasperante e in secundis da scene gore che potrebbero traumatizzare chi non riesce a sostenere la visione di un capezzolo automutilato e successivamente ingurgitato con avidità.
Già la trama prometteva bene ed è anche per questo che uno viene spinto alla visione: “Un ragazzo inventa infatti una droga che dovrebbe riuscire a mutare la sensazione di dolore in piacere; le sue intenzioni sono buone, anche a seguito del disagio interiore che prova a seguito della scomparsa del padre ma, quando somministra a tradimento la sostanza a 3 ragazze, le cose non andranno esattamente come previsto, perché quando anche il dolore puramente fisico si trasforma in piacere quasi orgasmico, saranno chezzi ameri”.
Come già accennavo prima, la prima parte (diciamo pure più di metà film) si mostra piuttosto lenta e tendente al noioso, scoraggiando quindi gli spettatori meno pazienti che magari si sono imbattuti nel film senza sapere che esso si gioca nella seconda parte le sue carte migliori.
Quando infatti gli effetti della droga cominciano a farsi sentire, la situazione cambia radicalmente e gli agofobici in primis cominceranno a gioire per la visione di scene piuttosto raccapriccianti, che diventeranno protagoniste della faccenda. Tutto ciò è reso possibile da effetti molto realistici che interesseranno principalmente la ragazza fissata con la bellezza e la cura del proprio corpo (vuoi mica un piercing tesoro?) e quella decisamente in fissa con il cibo (il particolare del capezzolo fatico a cancellarlo dalla mente, segno indubbiamente positivo, vista la quantità di “nefandezze” splatter di cui mi sono nutrito in più di vent’anni di onorata carriera).
Il sangue quindi la fa da padrone e consente la produzione di scene decisamente memorabili che, tra le altre cose, vedono una mano fritta in tempura (immagine ripresa in The Machine Girl dal grandissimo Noboru Iguchi, che Dio o chi per lui lo abbia in gloria) e successivamente sgranocchiata come se fosse un gamberone, una divertente rivisitazione del concetto di “mangiare” ciò che una donna conserva più o meno gelosamente in mezzo alle gambe e per concludere un cicchetto a base di occhio appena estratto dal proprio bulbo che costituisce (almeno per quanto riguarda l’estrazione) un vero classicone per il genere.
Tra una scena e l’altra non manca poi il tentativo (a dire il vero non sempre pienamente riuscito) da parte del regista di focalizzare l’attenzione su diverse problematiche che interessano principalmente la gioventù nipponica, avvalendosi anche di citazioni (non so quanto volute) di ben più illustri predecessori (Do you remember Hellraiser???).
Probabilmente, vista la piega che prende la vicenda, si sarebbe potuto ampliare l’approfondimento dei personaggi, dei quali effettivamente non sappiamo molto e che appaiono nella maggioranza dei casi come semplici mezzi per proseguire lo svolgimento della storia. C’è da aggiungere inoltre che anche la non memorabile prestazione recitativa globale non aiuta in questo senso, penalizzando un po’ la valutazione complessiva del lavoro.
Detto ciò, sconsigliando la visione a chi si sente offeso da quello che ha appena letto, consiglio a tutti gli appassionati del genere di recuperare questa chicca, perché fa curriculum e merita di venire immagazzinata nei vostri database.
Ora scusate ma vi devo lasciare, perché son già passate 24 ore da quando ho somministrato il MYSON alla mia fidanzata e son curioso di vedere l’effetto che fa.
Giudizio complessivo: 6.8
Enjoy,
Mano in tempura per tutti
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