Glass Lips


Regia: Lech Majewski



Pensato originariemente non come film ma come insieme di 33 cortometraggi esposti in diversi musei del mondo, Glass Lips è uno di quei prodotti che si potrebbe tranquillamente definire video-arte, una pellicola che scavalca il confine tra cinema e arte contemporanea, un mix particolare che risulta difficile da classificare.

La storia è composta, come già detto, da 33 cortometraggi affiancato l'uno all'altro e che seguono le memorie di un poeta rinchiuso in un manicomio, a partire dalla sua infanzia fino al presente. Quello che colpisce di questo film è, oltre all'estetica della quale parlerò in seguito, la potenza di alcune sequenze che, inaspettatamente, risultano dure e cattive, facendo sentire lo spettatore colpevole. Da piccolo infatti il poeta era solito venir picchiato ed umiliato pesantemente dal padre, attraverso pratiche come essere legato ad un guinzaglio e mangiare da una ciotola per cani la cena. 



Questo tipo di educazione ricevuta, basata sulla punizione fisica e psicologica, causa nel protagonista uno squilibrio mentale che lo porterà, in età adulta, ad essere rinchiuso in un manicomio. Qui il cineasta polacco vuole metterci in guardia sull'educazione dei più piccoli, un modo per capire che quello che a noi può sembrare un buon metodo educativo potrebbe non esserlo affatto e che le nostre azioni avranno conseguenze a lungo termine, molto più profonde di quello che potremmo pensare.

Visivamente il film è davvero unico, una fotografia perlopiù naturale accompagnerà il tutto e verrà ampiamente usata la tecnica dei tableaux vivants, ovvero dei quadri non dipinti ma incarnati da attori che restano immobili. Questa tecnica (della quale avevo già parlato anche in merito a I Disertori) è abbastanza rara nel cinema e qui viene usata in continuazione, in modo celato o esplicito (come la rappresentazione religiosa al museo di fronte ad un quadro della Pietà).



La religione è un altro elemento abbastanza presente nella pellicola, vista sia come salvezza che come rovina, una religione fatta non tanto di credenze quanto di immagini, di idoli e di punizioni, una religione sofferta e che non rappresenta il vero spirito che questa dovrebbe avere.

La cosa più particolare del film però è l'assenza di dialoghi. Nessun personaggo parlerà per oltre un ora e mezza, fatta eccezione per una voce meccanica ad un certo punto, ma giusto per un paio di secondi al massimo. Questo, se da un lato rende l'opera più filosofica e di nicchia, dall'altro uccide il ritmo in modo terribile, facendo sopraggiungere la noia, specialmente nella seconda parte. Non fraintendete, l'assenza di dialoghi non è necessariamente una cosa negativa (basti pensare ai film di Kim Ki Duk come Moebius o Ferro 3) ma senza una vera e propria trama come in questo caso, forse un pò lo è.



Resta comunque un valido film autorale da vedere solo se si è in cerca di qualcosa di davvero diverso e che faccia da collegamento tra due mondi artistici non più ormai così separati quali arte contemporanea e cinema.

Giudizio complessivo: 7

Buona Visione,

Stefano Gandelli




Trailer




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