Regia: Karyn Kusama
Una casa isolata, il segnale dei telefoni che va e viene (ma son più le volte che va), una festa un po’ stramba, un gruppo di ragazzi un po’ troppo cresciutelli rispetto agli standard abituali e niente, sembrava tutto apparecchiato per il solito banalotto slasherino innocuo.
Questo The Invitation ci mostra infatti qualcos’altro, grazie alla buona trovata della brava Karyn Kusama che forse osa un po’ troppo in alcuni frangenti, ma si rende capace di regalarci un thriller (?), horror (?), dramma familiare (?) di tutto rispetto, con un comparto tecnico da non sottovalutare, sia a livello di regia, che di fotografia.
L’atmosfera che si respira è inquietante sin da subito, è chiaro che c’è qualcosa che non va e quel qualcosa appare immediatamente come qualcosa di grosso (ma non così grosso come poi andremo a scoprire più avanti). Il palesemente finto buonismo dei padroni di casa non lascia molto tranquilli ed in particolare le reazioni ed i comportamenti di lei, con quelle espressioni appena abbozzate, ma inquietanti al punto giusto, trasmettono un senso di insicurezza che non può far altro che intrigare l’ignaro spettatore.
Spettatore che per altro resterà ignaro per molto ma molto tempo, forse troppo?
A questa domanda in effetti non saprei rispondere con certezza, dal momento che abitualmente non gradisco, ed anzi critico, introduzioni troppo lunghe che relegano tutta l’action nella parte finale. Ma qui è diverso, perché il lunghissimo preambolo riesce a fornire una caratterizzazione dei personaggi davvero molto ben sviluppata, che ne esalta la psicologia e che li rende empaticamente vicini.
Nonostante la lunghezza poi, questa parte riesce nell’impresa di non annoiare, creando aspettative molto alte in chi sta guardando, perché è inevitabile che uno, dopo più di un’ora di banali chiacchere, giochini adolescenziali, ricordi drammatici di episodi che inevitabilmente ti segnano per tutta la vita e filmati di pseudo fanatici convinti che la morte non sia poi questa grande fregatura, si aspetti che negli ultimi 20 minuti ci sia il botto, ma quello vero.
Non mancano inoltre alcune scene pregevoli, come per esempio quella in cui lui, seduto a tavola, si ritrova in bilico tra realtà e ricordi, con improvvise accelerazioni ed un crescendo musicale che mi ricorda di elogiare anche il comparto sonoro, curato da quel Theodore Shapiro, autore delle musiche di molti film di successo, anche recenti, e che già aveva collaborato con la Kusama nei suoi lavori precedenti.
A questi intermezzi intriganti, si somma tuttavia anche qualche divagazione di troppo legata alla setta, con alcuni deliri fanatico-religiosi che alla lunga frantumano un po’ i cojones e che per certi versi mi hanno ricordato la parte peggiore del deludente The Witch.
Le riprese, come già accennavo pocanzi, sono molto suggestive, con una cura dei particolari ben studiata che, attraverso per esempio l’immagine dei bicchieri, contenenti una versione poco più forte del Fernet Branca commercializzato liberamente, ci introduce alla stretta finale, dove il piano diabolico viene finalmente svelato, creando all’inizio un pizzico di delusione.
E sì perché, come dicevo, le aspettative erano alte e alla fine ci si rimane un po’ male che la faccenda si risolva così (anche perché le intenzioni non erano poi così impossibili da capire). Ma quell’ultima immagine, con quella stretta di mano, probabilmente manifesto di un’impotenza venutasi a creare a seguito degli ultimi sviluppi (questi sì davvero imprevisti, anche se poi ripensando al PC e ai discorsi del boss forse…), capovolge il giudizio, facendo meritare alla regista tutti i riconoscimenti del caso.
Chiudo con un elogio dell’intero cast, capitanato dall’ottimo Logan Marshall-Green (sosia ufficiale di Tom Hardy, pazzesco) coadiuvato dalla brillante Tammy Blanchard e da tutti gli altri che, ciascuno nel proprio ruolo, non hanno deluso le aspettative.
Giudizio complessivo: 7.7
Enjoy,
Luca Rait
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