Regia: Kim Ki-Duk
Primavera, Estate, Autunno, Inverno… E Ancora Primavera è una pellicola del 2003 diretta dal regista coreano Kim Ki-Duk. La trama è semplice, non ci sono grandi intrecci o colpi di scena significanti, e il film scorre lentamente, ma con un ritmo sostenuto per tutta la sua durata (103 minuti).
La vicenda si svolge interamente in una valle, luogo dove natura e misticismo si fondono. Ai piedi della valle si trova un lago, al cui centro è presente un tempio buddhista.
Proprio qui un vecchio monaco tramanda i suoi insegnamenti ad un bambino. Crescendo quest’ultimo conoscerà prima l’amore in tutte le sue forme, poi le delusioni della vita, la necessità di espiare le proprie colpe e, a sua volta, sarà poi chiamato a far crescere una nuova vita.
Il film è validissimo tecnicamente, spicca una fotografia maestosa, con inquadrature fisse o con movimenti di macchina molto contenuti; il regista sfrutta al meglio la scenografia e opta varie volte per la ripresa in grandangolo, donando così allo spettatore un senso di immersione nella natura e di staticità. Staticità è la parola chiave per descrivere questo capolavoro: a Kim Ki-Duk non interessa farci sentire il tempo che scorre, perché la pellicola rappresenta un qualcosa che è sospeso nel tempo, un qualcosa che è ovunque a livello spirituale, un qualcosa più metafisico che tangibile; già dal titolo si può notare proprio questo, cioè che il film è una grande metafora della vita, la quale inesorabilmente si ripete: cambiano i nomi, i luoghi, il periodo, ma non cambiano le vicende, o meglio, le stagioni. Kim riprende e rappresenta su pellicola un archetipo dell’uomo: la personificazione delle quattro stagioni e la loro ciclicità.
Per la fotografia si opta per un colore naturale, senza troppi artifici o filtri, in modo da lasciar spazio ai colori dello splendido paesaggio e accentuare ancora di più il tratto sì allegorico, ma realistico del film.
Sono presenti molti simboli, appartenenti principalmente al buddhismo, dal tempio stesso in cui si svolgono le vicende alla colonna sonora, semplice nella composizione (voce, flauto, qualche strumento a corda e pochissime percussioni, queste ultime sono necessarie a dare profondità al suono), ma diretta e di impatto, che riprende le antiche sonorità dell’estremo oriente, le quali si amalgamano armonicamente con le immagini; i simboli sono semplici e diretti, da tutti comprensibili in linea di massima, ma criptici in un certo senso, poiché per capirne la loro effettiva essenzialità bisognerebbe conoscere appieno la cultura dei popoli dell’Asia orientale. Gli insegnamenti del saggio sono favolosi e sono delle massime perfettamente relazionabili con la dottrina del buddha e, in particolare, se si parla del karma e della dottrina della sofferenza o duḥkha (dal sanscrito), ossia che tutti gli aggregati (fisici o mentali) sono causa di sofferenza qualora li si voglia trattenere ed essi cessano.
Un altro punto focale di questa dottrina filosofica su cui bisogna concentrarsi per capire il significato della pellicola è “la dottrina della coproduzione condizionata”, ossia del meccanismo di causa ed effetto che lega l'uomo alle illusioni e agli attaccamenti alla vita reale che costituiscono la base della sofferenza esistenziale.
Il film è la sintesi della ricerca interiore, dell’armonia tra il microcosmo ed il macrocosmo, tra la natura e l’uomo, tra la carnalità dell’io esteriore e la spiritualità di quello interiore.
Geniale, poi, la resa degli interni del santuario, poiché le stanze non hanno pareti, ma solo porte; esse sono la rappresentazione del rispetto e dell’intimità dell’uomo, e di come, quando queste vengono aperte e si passa da una stanza all’altra, nuove dimensioni e relazioni spirituali si generino: quando queste porte iniziano ad essere aggirate o non si passa per esse, l’uomo cede al suo istinto e spezza la dimensione dell’intimità e delle relazioni, a favore della soddisfazione degli istinti.
I dialoghi sono scarni e quasi assenti, si lascia spazio alla contemplazione; l’amore che provano i personaggi è reale, autentico, talmente autentico da generare violenza, talmente potente da creare una barriera verso l’altro individuo, sfociando nell’incomunicabilità fra le due parti.
La scrittura non è altro che l’allegoria dell’espiazione delle proprie colpe, in quanto scrivere, nelle civiltà dell’estremo oriente, rappresenta la purificazione, la liberazione dai propri demoni interiori.
In sintesi: la pellicola è validissima tecnicamente e con un grande significato di fondo; Kim Ki-Duk, senza effetti speciali o grandi produzioni alle spalle, crea un film poetico, profondissimo, un capolavoro del cinema orientale, da vivere, da provare sulla propria pelle.
“Nel ciclo infinito delle stagioni si adagiano le vite di chi ha già sopito le passioni terrene e di chi deve ancora percorrere il suo personale cammino umano”.
Giudizio complessivo: 8.6
Buona visione,
Malkut
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